I vivi sono quei processi che sopravviveranno alla mannaia del cosiddetto processo breve.
Quello che non ho ancora sentito né visto né letto è una parola sul senso di disagio profondo; ma non quello che si prova a figurarsi l’immane strage di processi, l’omertà dei mass media, lo schiaffo alle vittime; il fatto agghiacciante non è dei processi morti o ineluttabilmente condannati allo scacco; straziante e sgomentevole, invece, per me, è il pensiero della condizione di tutte quelle cause (penali), che sotto il fuoco incrociato di: termini, impedimenti, incompatibilità, difetti, commi e cavilli – si faranno. O si cercherà di fare. Cioè penso a quei procedimenti piccoli e grandi, che come tanti piccoli frali e gracili fanticelli medioevali in una ideale moderna Stalingrado giuridica, correndo e accosciandosi, correndo e accosciandosi ognora inebetiti tra insidie fatali, tenteranno, poveri, negletti – illusi – di arrivare a sentenza. E ce ne saranno molti.
Sempre di più. Cioè quella che lascia senza fiato è l’immagine di un’immensa massa di denaro, passibile diciamo di occupare, se ce la si immagina tradotta in banconote, da 50 per esempio, chi si accingesse a quantificarla esattamente al ritmo diciamo medio di una banconota al secondo – per circa una settimana (acca ventiquattro); tutto, speso (da uno Stato selvaggiamente indebitato) per alimentare una macchina immensa di uomini, donne, mezzi, palazzi, luce, gas, acqua, carta, microfoni, auto, verbali, servizi: per tritare l’acqua.