8.5.11

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Veniamo a noi. A quella, tra ogni altra marchiana, abominevole e grottesca falsificazione lessicale, tra tutte le mistificazioni linguistiche e i canaglieschi espedienti del vario repertorio della macchina universale della distrazione di massa, con cui alcuni selezionati individui mediocri, armati di potenti strumenti divulgativi, turlupinano e umiliano ogni giorno le intelligenze di milioni di uomini e donne, che – sotto gli occhi di una maggioranza distratta e connivente – le fa impallidire tutte. Sì, che concetti come “democrazia” e “intervento umanitario” applicati al mondo che ci circonda spingano, naturalmente, allo smarrimento e all’indignazione il pensatore attento e il fine culturologo, e tutte le figure che si aggirano cogitabonde nella redazione di codesto nostro foglio, mentre – e qui sta molta della sofferenza quotidiana dei grandi uomini – vengono accettate acriticamente, talvolta entusiasticamente propugnate dal volgo, si può ancora capire.

Ma non la corsia di accelerazione. Questa lingua d’asfalto, che l’inesauribile genio creativo dell’umanità ha escogitato per lenire, e se necessario debellare l’ancestrale piaga dell’immissione su strade a scorrimento veloce (extraurbane principali in particolare) per fare sì che, incrementando progressivamente la propria velocità, l’uomo potesse inserirsi nella circolazione veicolare in maniera armonica e pacifica. Se dovrà essere questa testata a denunciare la fine che ha fatto, ciò che avviene nelle corsie di accelerazione di tutto il mondo ogni mattina e sera, senza posa da quando se ne ha memoria, non sarà certo restia a bere anche questo amaro calice. Anche se è esperienza di tutti. Che questi mirabili prodotti dell’ingegneria sono quotidianamente invariabilmente teatro di eventi che niente hanno a in comune con il modo in cui vengono chiamate. Sì. Perché le corsie di accelerazione non sono già sfruttate dal conducente con giudizio e parsimonia per fermarsi, se necessario, se c’è traffico, all’inizio, con tutto lo spazio e il futuro davanti - e poi, occhio allo specchietto, e piede a martello al primo spiraglio per immettersi qualche metro più in là. No. Tutti i giorni bisogna assistere impotenti a corsie impegnate per marce timide e stentate, andature pavide e caracollanti in cui si consuma tutta la lunghezza data, coronate da imbelli stasi. Decorsi strazianti e inani proprio laddove l’intelligenza dei nostri avi, loro inventori, presupponeva il massimo della celerità e sveltezza - in fondo. Invece dell’accelerazione, ogni giorno un lento, fatalistico incedere verso l’inesorabile, verso il guardrail, vittime del proprio stesso abusato arbitrio. Fermi. Senza più spazio mentre a sinistra il traffico sfreccia a folle velocità, indifferente.

Ed ecco allora i goffi ingressi in statale a cinque all’ora, mentre tu arrivi a centoventi. Ecco alle sette di mattina le atroci bestemmie di uomini altrimenti distinti, anche eleganti. Ecco la vista su una strada libera e vergine davanti a te, quando non puoi fare niente, di uno fermo che, con flemma bovina, a volte senza freccia, proprio mentre arrivi si pianta ieratico in prima in mezzo ai coglioni; e poi, forse, se va bene, accelererà.

Se va bene, forse.