8.1.11

L’inganno delle parole

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Non dite al liberalissimo Piero Ostellino che quasi due secoli fa il liberale Alexis de Tocqueville aveva capito cose che lui mostra di non avere ancora capito adesso. Per esempio che nelle nazioni sviluppate, la democrazia fondata sul sacro e indiscutibile “verdetto popolare” scivola facilmente in una sorta di dispotismo “dolce”, in una “servitù regolata, mi-te e pacifica”, che si combina “meglio di quanto si immagini con alcune forme esteriori della libertà”. Questo perché, scriveva il pellegrino francese nel 1835 di ritorno dal nuovo mondo, “i nostri contemporanei sono continuamente tormentati da due passioni contrastanti: provano il bisogno di essere guidati e la voglia di restare liberi. Non potendo liberarsi né dell’uno né dell’altro di questi istinti contrari , cercano di soddisfarli entrambi contemporaneamente. Immaginano un potere unico, tutelare, onnipotente, ma eletto dai cittadini”.

È FIN TROPPO banale, col senno di poi, leggere in queste parole un’anticipazione profetica di quello che è oggi il Popolo della libertà. Ma sarebbe una forzatura ridicola e insidiosa, che si può agevolmente ribaltare in chiave autoconsolatoria: se la democrazia era già in crisi nell’America dell’Ottocento, se la dittatura della maggioranza esiste dai tempi di Tocqueville, se fin da allora i cittadini abdicano volentieri al “libero arbitrio” per diventare sudditi, perché inveire contro il populismo del Cavaliere? Non siamo di fronte a un bubbone scoppiato all’improvviso, ma a un fenomeno che rientra nella normale epidemiologia dei sistemi politici moderni, e non resta che prenderne atto, come ci invitano a fare quasi quotidianamente i soloni “liberali” del Corriere della Sera, tanto inflessibili con “la piazza” quanto indulgenti verso il Palazzo (Grazioli).

Riccardo Chiaberge, QUELLE DERIVE DISPOTICHE TRA MARX E B., FQ, p. 14.

È da tanto che la democrazia, assunta la lettera maiuscola ed esibita in varie salse quale somma prova di autorevolezza politica da autorevoli personalità politiche come George W. Bush e Silvio Berlusconi, è diventata un totem lessicale in nome del quale si è persino uccisa della gente, per esportare questo presupposto del nostro vivere civile si è detto, che la vita civile gli uomini politicamente autorevoli son capaci di esportarla, come le banane e il nickel in pani, ma ci vuol autorevolezza; e nessuno sembrava volere o poter mettere dei freni alla deriva.

Ora c’è questo saggio di Michele Ciliberto, docente alla Normale di Pisa, che solo il titolo, Democrazia dispotica (Laterza) fa venir voglia; speriamo.