L’intervista di Dell’Utri al cosiddetto Tg1, spaccato da una telecrazia del terzo millennio. Cioè lo spettatore del telegiornale, non edotto per altra via delle vicende oggetto del processo al parlamentare, esposto a medie radiazioni di informazione come male necessario e inevitabile.
Ecco allora l’imputato (le cui parole nel processo non contano niente, conteranno tanto in un’intervista) spiegare d’aver subito quindici anni di processo e due condanne perché, incauto, aveva assunto Vittorio Mangano come fattore ad Arcore, senza minimamente sapere che fosse mafioso, e sulla base di illazioni e speculazioni, una Corte di Appello della Repubblica gli ha comminato sette anni di reclusione.
Il bello è che si è costretti a parlare di Mangano perché la pressione dell’informazione non controllata è stata tale e tanta, che ormai il nome Mangano – fastidiosissima e imbarazzante vicenda – è entrato, tra un accenno e un ammicco, una polemica e una richiesta di chiarimento, nella testa di tutti, e anche in televisione. Senza probabilmente che molti sappiano precisamente perché e percome. E allora si cita quell’unico fatto, di più o meno dominio pubblico, per indurre a credere il volgo bruto e vile che davvero uno possa essere condannato per concorso esterno perché ha chiamato a Milano un mite concittadino palermitano che poi si scopre essere un feroce criminale (ed eroe).
Peccato Marcello. Peccato Silvio. Di volgo bruto e vile a credervi ce ne avete ancora tanto dietro. Ma finita la scorta di coltivatori diretti, manovali e analfabeti di ritorno in ogni categoria, prima o poi, la gente che ha un’idea delle cose di cui si parla e non si fa prendere per il naso dovrà pur prevalere. Deve.