Grazia, una parolina familiare a Re Giorgio
di Bruno Tinti
PdL - uomini liberi che vogliono
restare liberi. Soprattutto non vogliono andare in prigione. Che è già
una buona descrizione di B&C. A rifletterci bene di questi tempi se
ne potrebbe proporre un’altra: sono sostanzialmente monarchici. Solo a
gente così poteva venire in mente di ricattare il Presidente della
Repubblica: la grazia o facciamo cadere il governo. Sono rimasti ai
tempi dei sovrani assoluti, quando Re e Stato si identificavano, quando
si pensava che, siccome i delitti “turbavano la pace del Re”, il Re, e
solo il Re, poteva perdonare. Una prerogativa assoluta propria di un
sovrano assoluto. Per gente così lo Stato di diritto, lo Stato
costituzionale, la separazione dei poteri, l’intangibilità del
giudicato, sono tutte elaborazioni politiche e giuridiche sconosciute.
Il che è grave, non tanto sotto il
profilo ideologico (ognuno ha il diritto di pensarla come crede) ma sotto quello culturale.
PERCHÉ, ormai, sulla grazia, sui
suoi limiti e motivazioni, sono state scritte molte pagine; in
particolare alcune che contano assai, quelle della Corte Costituzionale:
la “grazia risponde a finalità essenzialmente umanitarie, idonee a
giustificare l’adozione di un atto di clemenza individuale, il quale
incide pur sempre sull’esecuzione di una pena validamente e
definitivamente inflitta da un organo imparziale, il giudice, con le
garanzie formali e sostanziali offerte dall’ordinamento del processo
penale... determinando l’esercizio del potere di grazia una deroga al
principio di legalità - il suo impiego deve essere contenuto entro
ambiti circoscritti destinati a valorizzare soltanto eccezionali
esigenze di natura umanitaria” (200/2006). E anche: la
grazia tende “a temperare il
rigorismo dell’applicazione pura e semplice della legge penale mediante
un atto che non sia di mera clemenza, ma
che favorisca in qualche modo
l’emenda del reo ed il suo reinserimento nel tessuto sociale”
(134/1976). Ma allora cosa c’è da preoccuparsi? B&C chiedano quello
che vogliono, strepitino e ricattino. Dottrina e giurisprudenza (quella
della Corte Costituzionale!) hanno già detto che non si può. B se ne
andrà a Villa Certosa, anzi no ad Arcore, anzi no a palazzo Grazioli,
anzi no a... (quante istanze di modifica degli arresti domiciliari e
quanto lavoro per il povero giudice di sorveglianza milanese) e (come
tutti già sanno) pasionarie e seguito resteranno ai loro posti: hanno
fatto quello che ci si aspettava da loro; adesso possono godersi le loro
poltrone.
Sì però ... Com’è che Napolitano ha
commutato la pena di Sallusti? Da pena detentiva (anche per lui da
scontare comodamente in casa Santanchè) in quella pecuniaria. Si fatica a
cogliere le pressanti ragioni umanitarie che lo dovrebbero aver
motivato; per non parlare della necessità di propiziare “l’emenda del
reo ed il suo reinserimento nel tessuto sociale”; di uno che sputava sui
giudici che lo avevano
condannato e che era appena evaso
dalla casa dove doveva restare “arrestato”. E con la grazia regalata al
colonnello americano Joseph Romano, il sequestratore di Abu Omar, come
la mettiamo? Questo addirittura era latitante. Ragioni umanitarie,
emenda (dimenticavo, sarebbe il pentimento operoso, “non lo faccio più e
anzi lotterò contro il male”), reinserimento sociale? Ma dai!
E POI, non per parafrasare ancora
una volta Andreotti, ma quell’insinuante auspicio: “adesso i tempi sono
maturi per una riforma della giustizia”, autorizza cattivi pensieri. Vi
rendete conto? Finalmente, dopo 10 anni, un processo si conclude con la
condanna di un ricco e potente, il sistema dimostra di poter funzionare
nonostante tutto (tutto significa soprattutto quelle leggi ad personam
che Napolitano ha disciplinatamente firmato e che dunque
conosce benissimo), è il trionfo
dell’art. 3 della Costituzione; e il Presidente super partes, garante
dell’unità nazionale, custode della Costituzione etc etc ci viene a
raccontare che lo dobbiamo riformare. Ma non aveva proprio niente di
meglio da dire? Del tipo “via i delinquenti dalla politica”; oppure
“serve una legge elettorale che impedisca che cose di questo genere si
ripetano”; e via così. Infine: visto che il Presidente ha ritenuto di
esternare sul preannunciato ricatto del PdL, non poteva chiarire subito
che di grazia a un frodatore fiscale condannato a 4 anni non se ne
parlava? Che la grazia debba essere richiesta dai condannati, dagli
avvocati etc, che almeno ci deve essere un inizio di esecuzione della
sanzione (che per Romano non c’era stato e che, per Sallusti
, era stato subito interrotto
dall’evasione), che ci va un’istruttoria del ministro della Giustizia,
lo sapevamo tutti. Che bisogno c’era di menare il can per l’aia? Mi sa
che, quando il Fatto ha cominciato a chiamarlo Re Giorgio, magari non lo
sapeva ancora ma ha colto nel segno.
FQ, p. 18.