PERFINO VESPA SCOPRE LA LOTTA DI CLASSE: ORA SI CHIAMA LEGALITÀ
È cambiato il clima, nessuno tollera più gli evasori fiscali
di Paolo Flores d’Arcais (FQ, p. 7)
La lotta di classe non è affatto scomparsa, e anzi ormai dilaga anche all’interno dei ceti privilegiati, se l’aedo massimo del regime, Bruno Vespa, esterna pubblicamente tutto il suo odio sociale per il coinquilino dal tenore di vita (più che opulento) eguale al suo, che però denuncia al fisco meno del precario di un call center. Se in Italia vigesse la meritocrazia entrambi guadagnerebbero meno di quel precario (e altrettanto accadrebbe a Brunetta, che ai precari vuole togliere anche il diritto di protestare), ma l’episodio è comunque emblematico dei nuovi conflitti cui ha dato il vita il pluriennale malgoverno delle cricche berlusconiane.
LA QUESTIONE cruciale di tutto l’Occidente è la contraddizione tra i valori democratici proclamati nelle costituzioni e la dismisura della disuguaglianza sociale che quei presupposti mette pesantemente a repentaglio.
Questione che la cultura un tempo chiamata “progressista” o “di sinistra” deve affrontare in termini di radicalità libertaria, dopo il troppo lungo sonno delle illusioni socialdemocratiche. Facciamo due esempi tra loro diversissimi: Valentino Mazzo-la, il mitico capitano del mitico Torino, nel 1946 guadagnava 5,3 volte il salario di un operaio Fiat, e certamente faceva una vita molto benestante e privilegiata. Oggi Zlatan Ibrahimovic guadagna 930 volte il salario di Cipputi. Negli anni ’50 l’ingegner Valletta, amministratore delegato della Fiat, godeva di un reddito 20 volte superiore al “suo” operaio, il rapporto con Marchionne è cresciuto a 435 volte, ma se si considerano le stock option qualcuno ha calcolato che si arriva a 6 mila volte! Albert Hirschman, grande economista e sociologo liberale, sosteneva mezzo secolo fa che una forbice delle remunerazioni superiore a 1:5 comincia a far scricchiolare la coesione sociale. Se non si rimette al centro del dibattito la radicale riduzione delle diseguaglianze il futuro delle democrazie è segnato.Ma in Italia la crisi comune a tutte le liberaldemocrazie di occidente è aggravata dalla volontà di impunità di ceti dirigenti che considerano il (loro) delinquere poco meno che un diritto. La questione dell’evasione fiscale, che ha trasformato perfino l’aedo massimo del regime in un “indignado” una tantum ne costituisce la cartina di tornasole. Un manager non al “top”, che guadagni 300 mila euro lordi all’anno, ne deve versare al fisco circa 120. Il commerciante o libero professionista della porta accanto, che guadagna altrettanto ma dichiara meno del garzone di bottega, se li intasca tutti. In pratica rapina il manager di 60 milioni. O, per meglio dire, rapina decine e decine di lavoratori dipendenti che hanno un lordo dieci volte inferiore, e che potrebbero vedere le loro tasse dimezzate se il governo le facesse pagare davvero a tutti.
LE CIFRE SONO impressionanti:120 miliardi sottratti al fisco (cioè ad ogni altro cittadino onesto) sono l’equivalente di circa otto anni di manovre “lacrime e sangue” tipo quella appena decretata. Il che significa che basterebbe recuperare un ottavo della rapina degli evasori per consegnare “lacrime e sangue” a un passato irripetibile. Non solo, 60 miliardi è il costo annuo della corruzione, che il governo incoraggia anziché combattere, e 150 (ma forse calcolato per difetto) il costo nazionale della criminalità organizzata. Ma limitiamoci solo all’evasione, e anzi a una parte di essa, quella che somma reato a reato trafugando i capitali all’estero. Il famigerato “scudo fiscale” ha fatto rientrare 107 miliardi, appartenenti a 180 mila cittadini “eccellenti” e anonimi, seicentomila euro in media a testa, tassati al 5%, trentamila euro, quando, se avessero pagato il dovuto. ciascuno ne avrebbe dovuto aggiungere altri 200 mila (e comunque sarebbe stato un privilegio: nessuna multa, nessuna sanzione, e addirittura nessuna indagine sull’eventuale provenienza criminale del malloppo). In Germania e in Inghilterra un analogo condono esigerà mediamente una tassa del 30%. Allinearsi ai governi di destra europei significa ritassare quei 107 miliardi del 25%: più di quanto l’intera manovra prevede per il primo anno (se poi aggiungiamo l’addizionale sui redditi oltre i 90 mila euro, unica misura giusta della manovra, che non a caso Berlusconi ha voluto cancellare, e magari l’abrogazione di tutti i regali al Vaticano, che libererebbe Papa cardinali e vescovi dal peccato di simonia, avremmo già coperto due anni di “lacrime e sangue”).
NON SI SFUGGE perciò alla domanda: perché gli interessi di 180 mila individui, cifra risibile di fronte a 50 milioni di elettori, paralizzano il paese e obnubilano la lucidità decisionale della politica? Per quanto riguarda il governo la risposta è semplice: quei 180 mila sono loro stessi, e i loro “compagni di merende”, di grassazione e di appalti, i loro ruffiani e faccendieri. Ma per l’opposizione? Perché non basta chiedere la ritassazione per salvarsi l’anima. Bisogna farne bandiera di una battaglia politica da portare nelle piazze. Se davvero fatta con convinzione, senza se e senza ma, avrebbe grandi probabilità di essere vincente.
Valga il vero: se addirittura un Bruno Vespa mugugna, e financo un pasdaran dei pasdaran del regime come Maurizio Belpietro, che difficoltà potrebbe avere un’opposizione degna del nome a trascinare nella rivolta morale contro la rivoltante manovra delle “cricche” i milioni di cittadini dal reddito medio o medio basso che hanno votato Berlusconi e Bossi, e che si vedono tagliare asili nido e trasporti, sanità e sicurezza, solo per garantire ancor più smisurati sprechi sibaritici a 180 mila incalliti evasori?
LE MISURE ventilate nei momenti di crisi rendono evidente cosa significhi per ciascuno la parola “equità”. La guerra all’evasione fiscale è l’abc di qualsiasi politica decente. Anche molti elettori di destra se ne rendono conto (comunque troppo tardi), ora che sentono le grinfie del regime nelle loro tasche. La guerra alla corruzione e alle mafie farebbe dell’Italia il paese più ricco d’occidente. Il radicamento dei diritti dei lavoratori costringerebbe gli imprenditori all’innovazione. In fondo, il grado zero della nuova lotta di classe si chiama rivoluzione della legalità.