10.9.11

Com’è triste Venezia

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VENEZIA / A DUE VELOCITÀ

LE MOSTRE GEMELLE

Cinefili poveri da una parte, vip da lounge bar dall’altra: la vita da Festival non è la stessa per tutti

di Nanni Delbecchi (FQ)

Vale la pena di venire al Lido, e di arrivarci a piedi, non fosse che per vedere con i propri occhi ciò che a parole è indescrivibile non solo perché è inguardabile, ma soprattutto perché è inspiegabile. Prima di ogni palazzo, tappeto, o star (insomma, prima di tutto) ad accogliere il visitatore è una lunghissima transenna cieca, un mistero più fitto perché più ovvio, come in un racconto di Buzzati. Oltre il velo squarciato qua e là, alla fine appare un’enorme prateria di fogli e di sacchi di plastica bianca; un enigma nell’enigma che fa sospettare di essere finiti alla Biennale invece che alla Mostra del Cinema. Né Boltanski né Christo avrebbero saputo fare di meglio. Christo però è famoso per avere impacchettato i monumenti più celebri, qui il pacco ne nasconde un altro, il buco più costoso al mondo: “Qui giacciono 37 milioni di euro”, recita il manifesto mortuario affisso giovedì dagli occupatori del Teatro Valle in trasferta a Venezia.

IL CRATERE SCAVATO per gettare le fondamenta del Nuovo Palazzo del Cinema, abbandonato quando si è scoperto che sotto c’era una discarica di amianto, guarda tu i casi della vita, e allora impacchettato in fretta e furia, come se nulla fosse, come se fare finta di niente fosse il primo dovere di ogni festival. Si vive così, in gioiosa omertà, con il morto in casa e il bicchiere di prosecco in mano, circondati da questo ground zero che ci si è fatti con le proprie mani, e che è di gran lunga la cosa più cinematografica di queste autoipnosi collettive che sono diventati i Festival del cinema.

In realtà, il ground zero di plastica qualche risultato lo ha raggiunto. È riuscito a distruggere la pineta secolare dove i cinefili, quelli veri, venivano a campeggiare fino agli anni Ottanta; ed è riuscito a ostruire la scalinata della facciata del Casinò, i gloriosi gradoni di marmo che hanno ospitato tante litigate e tanti dibattiti dopo le proiezioni; ma che bisogno c’è di litigare, nell’era delle conferenze stampa e dei photocall? La conferma arriva appena superata l’ultima transenna, là dove finisce la prateria bianca e comincia il famoso tappeto rosso, srotolato tra gli avancorpi di cartongesso che sfigurano la fronte del Palazzo del cinema. Il red carpet resta però una sorta di luogo del destino. È qui che si separano le vite dei festivalieri, perché in realtà mostre del cinema ce ne sono due, proprio come le Torri gemelle, ma ben distinte.

La mostra dei ricchi ha il suo epicentro nei locali dell’Excelsior, dove le camere sono trasformate in uffici della Rai, delle case di produzione e delle film commission. Qui un caffè costa 5 euro, uno champagnino 20, ma il problema non si pone perché tutti sono spesati a pie’ di lista, e per i vip più vip c’è anche lo Spazio Lancia (scelta ineccepibile da parte dello sponsor, almeno ci si ricorda che la Lancia esiste ancora), ricavato nella zona più esclusiva della terrazza, piscina e lounge bar in puro stile Vanzina dove hanno luogo le feste più esclusive (a quella di Fandango, giovedì, teneva banco il noto cinefilo Sgarbi). A quando un bel cinepanettone ambientato al Lido, un bel Vacanze alla Mostra del cinema? I tempi paiono maturi.

SULLA RIVA OPPOSTA del red carpet, un archetto da Luna Park di paese che reca la scritta “Movie Village” indica l’ingresso della mostra dei poveri. Una vita meno glamour fatta di pagode tendate, margaritas che intiepidiscono nei bicchieri di carta, code interminabili e difficilmente decifrabili, maschere spietate che separano le mogli dai mariti (lei entra, tu no), e per sfamarsi, un solo self service dato in appalto alla “Tino Ristorazione Eventi” di Tino Vettorello, caro amico di Luca Zaja (questo è solo uno dei tanti dei prestigiosi appalti vinti). Menu immutabile dal primo all’ultimo giorno, dove la star di cui tutti parlano è una porchetta con patate che ha avuto ragione di stomaci che si ritenevano invulnerabili. Per il pubblico pagante è anche più dura, se si pensa che i prezzi dei biglietti per assistere a queste anteprime mondiali (di cui tra un anno ci tireranno dietro il dvd) oscillano da un minimo di 12 fino a 45 euro, sempre nella speranza di trovare un posto in Sala Grande, altrimenti c’è lo spauracchio del Pala Biennale, dove se ti capita davanti uno di statura media puoi dire addio per sempre ai sottotitoli.

Poi, naturalmente, ci può sempre scappare il momento magico; quello di ieri è arrivato dalla commovente consegna del Leone d’oro alla carriera a Marco Bellocchio per mano di Bernardo Bertolucci. Due gemelli diversi del nostro cinema, due “ribelli moderati”, come si è definito Bellocchio che hanno dimostrato come quella tra ribelli sia la più preziosa delle complicità. Bertolucci racconta, da vecchio fan, che gli confessa di seguirlo da sempre fin dai tempi dei Pugni in tasca. “Io l’ho ringraziato, ma poi gli ho detto: magari lo avessi fatto io I pugni in tasca, magari fossi capace di esprimere così bene un sentimento come rabbia”.

Questa sera conosceremo anche i Leoni della Mostra numero 68; molti sussurrano che a vincere potrebbe essere perfino un film italiano, così il direttore Marco Muller potrebbe essere riconfermato per la terza volta, anche se solo per un anno. Ipotesi poco verosimile, e pertanto probabile; qui al Lido si conferma tutto, a cominciare dai buchi.