27.10.13

Allegoria e fotografia del cattivo governo

Questa qui è l'allegoria:
Questa, invece, la fotografia:


Italia, declino voluto dalla classe dirigente

LO HA DENUNCIATO ANCHE VISCO: LA POLITICA HA AZZOPPATO L’UNIVERSITÀ E LA SCUOLA, GLI IMPRENDITORI HANNO AZZERATO RICERCA E INNOVAZIONE. IL PAESE HA PERSO L’UNICA ARMA PER SALVARSI DALLA CRISI: IL CAPITALE UMANO

L’Italia non ce la fa. È prigioniera di una classe dirigente - politici, imprenditori, burocrati - consapevole dello sfacelo e per questo impegnata ad appropriarsi dell’ultima residua ricchezza. Non investe sul futuro e subisce il racconto interessato di chi, per spalmare le colpe, parla di un popolo di sfaticati (bassa produttività del lavoro) aggrappati alla nostalgia per lo stato sociale. Ma, se si gratta un po’, sotto la crosta della retorica ufficiale appaiono altri fatti. Il governatore di Bankitalia Ignazio Visco, al “Forum del libro” di Bari, ha nascosto in una apparente divagazione culturale una frase durissima: “I margini ottenuti con la maggiore flessibilità del mercato del lavoro introdotta dalla metà degli anni ’90, e la contestuale riduzione dei salari reali, sono stati troppo poco utilizzati dalle imprese per realizzare gli investimenti in ricerca e sviluppo e in nuove tecnologie”. Quindi, dice il governatore, al popolo lavoratore i suoi sacrifici sono stati imposti in questo Ventennio. Ma sono le imprese che non hanno fatto il loro dovere. Visco ha anche spiegato che proprio nella crisi bisognava avere il coraggio di investire per uscire dai guai. Esempio: “Durante la crisi, la quota del Pil destinata alle politiche attive per la formazione e ai servizi per l’impiego in Italia si è ulteriormente ridotta, mentre è cresciuta in quasi tutti i paesi dell’Unione”. Lo stesso vale per tutto ciò che va a formare il cosiddetto “capitale umano”, la risorsa strategica con cui un’economia può costruire il proprio futuro.

LA SCUOLA ABBANDONATA a se stessa; l’Università in preda a orde baronali a caccia delle poche cattedre rimaste; laboratori di ricerca chiusi come inutili lussi; la cultura che non si mangia; la rete telefonica appassita mentre attorno ad essa si svolgevano epiche guerre di potere, l’unica specialità in cui i nostri imprenditori hanno talento da spendere. L’analisi di Visco è spietata. Ciò che serve davvero sono “il software, le banche dati, l’attività di ricerca e sviluppo, i brevetti, il design”. E invece, nota il governatore, “l’incidenza sul prodotto interno lordo di questi investimenti oscilla tra l’11 per cento negli Usa e il 2 in Grecia. L’Italia si colloca nelle ultime posizioni, con un valore di poco superiore al 4 per cento”. Non è solo colpa della grande crisi. La rovina è iniziata con gli anni ’90. È da allora che l’economia italiana ha performance dimezzate rispetto alla media europea e che la produttività ha smesso di crescere per responsabilità di aziende che non investono in tecnologie, senza le quali la produttività del lavoro può aumentare solo facendo crescere le ore lavorate a parità di salario. Dal 2000 al 2007, gli otto anni prima della crisi, la produzione industriale era già scesa del 4 per cento e la spesa in ricerca era inferiore a quella degli altri paesi sviluppati: non per colpa dello Stato, che spende in linea con gli altri paesi, ma per la diserzione delle imprese private, che già negli anni del boom della finanza investivano la metà di quelle inglesi e olandesi, un quinto di quelle giapponesi.
Le stesse cose di Visco le ha dette il suo predecessore Mario Draghi nel 2008, all’immediata vigilia della crisi: “Nel complesso del sistema produttivo, gran parte del quale è al riparo dalla concorrenza internazionale, la produttività media ancora non progredisce. Non è difendendo monopoli o protezioni che, alla lunga, si genera ricchezza: ma investendo, innovando, rischiando”.

NESSUNO HA FATTO il suo dovere. Oggi in Italia i giovani studiano poco e male, e se per caso riescono a studiare molto e bene non c’è premio. Secondo Visco, “nel 2011 in media nell’Unione europea lavorava l’86 per cento dei laureati tra i 25 e i 39 anni, contro il 77 di coloro che avevano al massimo un diploma di istruzione secondaria superiore e il 60 per cento dei giovani in possesso di qualifiche di livello inferiore. In Italia, tuttavia, studiare conviene meno: per i laureati, nella stessa fascia di età 25-39 anni, la probabilità di essere occupati era pari a quella dei diplomati (73 per cento) e superiore di soli 13 punti percentuali a quella di chi aveva la licenza media”. Le aziende non investono perché non credono di trovare personale all’altezza, i giovani non studiano perché tanto non serve a trovare lavoro. Questo “paradosso” evocato dal governatore è la trappola mortale per le giovani generazioni. La politica, ben contenta, ne approfitta per tagliare sulla formazione, soprattutto quella qualificata, facendo passare il messaggio che è meglio l’istruzione tecnico-professionale di una laurea in fisica nucleare. E poi, perché buttare anni in atenei dove non si trova un computer? Spendiamo miliardi di euro per ferrovie ad alta velocità notoriamente inutili, e non c’è una rete di telecomunicazioni degna di questo nome. Facciamo dieci convegni al giorno sulle start-up, supercazzola che va per la maggiore di questi tempi ma in inglese vuol dire solo “nuove aziende”. Ma non gli diamo neppure Internet.

Secondo i dati della Agenda digitale europea ( http://ec.euro  pa.eu/digital-agenda/en/score  board  ), solo il due per cento delle utenze telefoniche italiane sono connesse a una rete di nuova generazione, di quelle molto veloci, contro una media europea del 20 per cento. C’è un dato che può sembrare astruso, ma è molto utile per capire l’efficienza delle reti di un paese: la perdita di dati. Quando un computer scarica dati, se il collegamento non è buono, pacchetti di dati vanno persi, l’utente non se ne accorge ma i pacchetti difettosi vengono ritrasmessi fino a che non arrivano intatti, rallentando il traffico. Secondo i dati dell’Unione europea, in Italia la perdita di dati è tripla rispetto alla media e sei volte maggiore che in Germania. E ciò contribuisce a fare della nostra rete internet la più lenta d’Europa. Quasi la metà dei cittadini europei fanno acquisti online, in Italia siamo fermi a poco più del 15 per cento. Meno del cinque per cento delle piccole e medie imprese italiane vendono online, e infatti sono in fondo alla classifica europea, dove la media si avvicina al 15 per cento. L’unica consolazione è che presto potremo andare in treno da Torino a Lione, in un lampo. I giovani italiani potranno scappare ad alta velocità.
Giorgio Meletti, Il Fatto Quotidiano, p. 8