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Italia, declino voluto dalla classe dirigente
LO HA DENUNCIATO ANCHE VISCO: LA POLITICA HA AZZOPPATO L’UNIVERSITÀ E LA SCUOLA, GLI IMPRENDITORI HANNO AZZERATO RICERCA E INNOVAZIONE. IL PAESE HA PERSO L’UNICA ARMA PER SALVARSI DALLA CRISI: IL CAPITALE UMANO
L’Italia non ce la fa. È prigioniera di una classe dirigente - politici, imprenditori, burocrati - consapevole dello sfacelo e per questo impegnata ad appropriarsi dell’ultima residua ricchezza. Non investe sul futuro e subisce il racconto interessato di chi, per spalmare le colpe, parla di un popolo di sfaticati (bassa produttività del lavoro) aggrappati alla nostalgia per lo stato sociale. Ma, se si gratta un po’, sotto la crosta della retorica ufficiale appaiono altri fatti. Il governatore di Bankitalia Ignazio Visco, al “Forum del libro” di Bari, ha nascosto in una apparente divagazione culturale una frase durissima: “I margini ottenuti con la maggiore flessibilità del mercato del lavoro introdotta dalla metà degli anni ’90, e la contestuale riduzione dei salari reali, sono stati troppo poco utilizzati dalle imprese per realizzare gli investimenti in ricerca e sviluppo e in nuove tecnologie”. Quindi, dice il governatore, al popolo lavoratore i suoi sacrifici sono stati imposti in questo Ventennio. Ma sono le imprese che non hanno fatto il loro dovere. Visco ha anche spiegato che proprio nella crisi bisognava avere il coraggio di investire per uscire dai guai. Esempio: “Durante la crisi, la quota del Pil destinata alle politiche attive per la formazione e ai servizi per l’impiego in Italia si è ulteriormente ridotta, mentre è cresciuta in quasi tutti i paesi dell’Unione”. Lo stesso vale per tutto ciò che va a formare il cosiddetto “capitale umano”, la risorsa strategica con cui un’economia può costruire il proprio futuro.
LA SCUOLA ABBANDONATA a se stessa; l’Università in preda a orde baronali a caccia delle poche cattedre rimaste; laboratori di ricerca chiusi come inutili lussi; la cultura che non si mangia; la rete telefonica appassita mentre attorno ad essa si svolgevano epiche guerre di potere, l’unica specialità in cui i nostri imprenditori hanno talento da spendere. L’analisi di Visco è spietata. Ciò che serve davvero sono “il software, le banche dati, l’attività di ricerca e sviluppo, i brevetti, il design”. E invece, nota il governatore, “l’incidenza sul prodotto interno lordo di questi investimenti oscilla tra l’11 per cento negli Usa e il 2 in Grecia. L’Italia si colloca nelle ultime posizioni, con un valore di poco superiore al 4 per cento”. Non è solo colpa della grande crisi. La rovina è iniziata con gli anni ’90. È da allora che l’economia italiana ha performance dimezzate rispetto alla media europea e che la produttività ha smesso di crescere per responsabilità di aziende che non investono in tecnologie, senza le quali la produttività del lavoro può aumentare solo facendo crescere le ore lavorate a parità di salario. Dal 2000 al 2007, gli otto anni prima della crisi, la produzione industriale era già scesa del 4 per cento e la spesa in ricerca era inferiore a quella degli altri paesi sviluppati: non per colpa dello Stato, che spende in linea con gli altri paesi, ma per la diserzione delle imprese private, che già negli anni del boom della finanza investivano la metà di quelle inglesi e olandesi, un quinto di quelle giapponesi.